Inno al Logos
di Filippo Goti
1. Introduzione
Il Nuovo
Testamento offre
molteplici
spunti di
riflessione
attorno a quegli
elementi
caratterizzanti
di ciò che oggi
riteniamo,
essere il
cristianesimo,
ma che in quel
limbo magmatico
dei primi secoli
della nuova
erano frutto di
accesi dibattiti
e scontri non
solo verbali.
Direttamente o
indirettamente
il Nuovo
Testamento
offre, per
coloro che sanno
dove posare
l'intelletto,
evidenze attorno
ad una genesi
eterogenea del
cristianesimo,
di una
moltitudine di
forme rituali
con cui
preservare e
manifestare il
sacro,
all'alternativa
fra una
struttura
piramidale con
al vertice una
classe
sacerdotale
oppure di una
gestione
comunitaria ed
elettiva del
sacro, ed infine
della
conflittualità
fra una
vocazione al
settarismo ed
una successiva
rivolta al
proselitismo.
Oltre a quanto
sopra esposto
che a diverso
titolo investe
la forma, o
meglio le forme
del
cristianesimo,
abbiamo anche
un'evidenza
eterogenea che
riguarda la
sostanza stessa
del
cristianesimo,
tanto a
determinare nel
corso dei secoli
a seguire, e
fino ad oggi,
attriti e
incongruenze che
solamente
attraverso
l'arte
dell'ignoranza o
dell'ipocrisia
si possono in
qualche modo
pacificamente e
orizzontalmente
appianare.
L'arte del non
vedere, per non
dolersi, non
riguarda
solamente le
faccende comuni
degli uomini, ma
anche delicati
problemi
religiosi; i
quali continuano
evidentemente a
scavare nel
profondo degli
animi umani,
portando a più
riprese a crisi
di rigetto, a
causa degli
innesti
radicalmente
incompatibili.
Nell’ambito del
presente lavoro,
lasciando i temi
sfiorati in
precedenza, ci
occuperemo di un
tassello
importante lungo
la strada della
comprensione di
quella che io
chiamo la
Questione
Giovannita.
Evidenzieremo
all’interno del
Nuovo Testamento
quel corpus
d’insegnamenti
filosofici e
metafisici che
non sono
riconducibili
all'ebraismo di
Pietro o
Giacomo, bensì
pertinenti a una
dimensione
intellettuale
contigua alla
filosofia greca
e alla
metafisica
alessandrina, a
una sensibilità
verso la radice
spirituale delle
cose tutte,
piuttosto che
alla cronaca
auto celebrativa
della vita di
Gesù e delle
persone a lui
più vicine.
In precedenti
lavori abbiamo
posto l’accento
sul’importanza
della questione
giovannita, e di
come all'interno
della sfera
religiosa
cristiana si
siano affrontate
due diverse
scuole di
pensiero, due
sensibilità
verso il sacro,
e di come questa
rappresenti, che
lo si comprenda
o meno, il
fondamento della
mistica, così
come
dell'esoterismo
cristiano.
Nel presente
lavoro andremo
quindi ad
analizzare,
senza lasciarci
lusingare da
voli pindarici e
fornendo sempre
degli utili
elementi di
raffronto, il
cuore stesso
del'insegnamento
Giovannita. Una
memoria che è
stata inserita
all'interno del
Nuovo Testamento
nel prologo del
Vangelo di
Giovanni, e che
prende il nome
di Inno al
Logos.
1. Inquadramento
Storico
La tradizione
attribuisce il
quarto vangelo a
Giovanni il
discepolo che
Gesù amava
maggiormente,
anche se gli
esegeti moderni
indicano come
estensore del
Vangelo un
erudito greco di
Efeso facente
parte di una
scuola o
comunità
giovannea.
Scritto in greco
e composto di
ventuno capitoli
si suppone che
esistita una
prima versione
in aramaico, o
almeno un nucleo
che poi è stato
tradotto in
greco, e che ad
oggi è andato
perduta.
Il
manoscritto più
antico
contenente un
brano del
Vangelo secondo
Giovanni è il
Papiro
cinquantadue,
che può essere
datato attorno
al 120 d.c.,
questo non
significa che il
Vangelo di
Giovanni sia
stato scritto in
tale data, ma
solamente che ad
essa si
riferisce il
documento più
antico che lo
contiene, e che
quindi non
esclude versioni
precedenti. Il
testo è
conservato
presso la John
Rylands Library
di Manchester,
Inghilterra.
Gli studiosi
sono in forte
disaccordo
attorno alla
prima stesura
del Vangelo di
Giovanni, alcuni
tendono a
collocarlo fra
la fine del
primo secolo
dell'era
cristiana e
l'inizio della
seconda, altri
invece
considerano che
tale data non
possa essere
molto distante
dagli anni della
vita di Gesù.
Poiché
l'estensore pare
dia per scontato
a Gerusalemme
l'esistenza
della piscina di
Betzaeta, ma ciò
non sarebbe
possibile dopo
l'anno 70 in
quanto la città,
e con essa la
piscina, furono
distrutti dai
romani.
Sicuramente il
testo ha subito
una serie di
rielaborazioni,
aggiunte, che ne
hanno prolungata
la gestazione, e
che possono
attribuirsi alla
necessità da un
lato di fornire
un nuovo
paradigma
religioso agli
ebrei cristiani
e ai cristiani
ellenici, e
dall'altro dalla
necessità di
rendere meno
traumatica la
sua esistenza
accanto ai
sinottici. Da un
lato l’azione di
alcuni apostoli
e San Paolo
aveva aperto il
mondo del
cristianesimo ai
gentili, e
dall’altro la
caduta di
Gerusalemme
aveva
scaraventato gli
ebrei nel mondo
greco-romano.
Esisteva quindi
la necessità di
fornire degli
elementi di
dialogo e
integrazione,
ecco quindi la
ragione dei vari
vangeli ognuno
cadenzato
maggiormente
sulle esigenze
di un gruppo
rispetto
all’altro, ma
non possiamo
escludere che le
aggiunte e i
rimaneggiamenti
dei vari testi
che compongono
il nuovo
testamento, fra
cui il vangelo
di Giovanni,
trovino cagione
nella necessità
di rendere i
vari libri fra
loro se non
omogenei, non
troppo
conflittuali.
Attorno a questo
punto è
interessante
annotare come
alcuni studiosi
pongono il
Vangelo di
Giovanni come
stesura
indipendente, e
anche
precedente,
rispetto ai
sinottici. Fino
a indicarlo come
portatore di
elementi di
verità che in
essi non si
riscontrano:
...Giovanni se
non segue la
tradizione
sinottica, non
la perde mai
d'occhio.
Giustamente ha
detto il Renan
che Giovanni
"aveva una sua
propria
tradizione, una
tradizione
parallela a
quella dei
sinottici, e che
la sua posizione
è quella di un
autore che non
ignora ciò che è
già stato
scritto
sull'argomento
ch'egli tratta,
approva molte
delle cose già
dette, ma crede
d'avere
informazioni
superiori e le
comunica senza
preoccuparsi
degli altri"
("Vita di Gesù
Cristo"
dell'Abate
Ricciotti 1941,
revisione del
1962)
Del resto la
predilezione
verso il Vangelo
di Giovanni era
presente anche
in Origene di
Alessandria,
teologo e
mistico del
terzo secolo,
che lo
considerava il
fiore dei
Vangeli; così
come da parte di
mistici, e
ordini monastici
questa
narrazione del
Cristo ha
suscitato
interessi ben
maggiori
rispetto a Luca,
Marco e Matteo.
Risultando alla
base della
ritualità di
numerose realtà
iniziatiche
occidentali
anche se spesso
confusa nella
forma e nel
contenuto.
In conclusione
possiamo
affermare che il
vangelo di
Giovanni, si
distanza per
contenuti dai
precedenti
vangeli poiché
esso non ha come
centro della
propria
narrazione gli
aspetti morali
ed escatologici
della
predicazione di
Gesù, ma offre
una profonda
riflessione
sugli aspetti
teologici,
sull'epifania
del sacro
incarnata in
Gesù. Questo non
significa che il
Vangelo di
Giovanni non
contenga
elementi
storici, è
infatti
possibile
trovare fra le
sue pagine
narrazioni
dettagliate
quali il
processo di
Gesù, con la
figura di Anna e
la data della
morte, o i
rapporti fra lo
stesso Gesù e il
Battista, che
dimostrano come
l'estensore
della narrazione
appartenesse a
una scuola che
ha tramandato
tradizioni
storiche attorno
alla vita del
messia. Quello
che però lo
caratterizza è
il suo focus,
che risiede
nell'esigenza di
contestualizzare
non tanto
l'aspetto
storico, non
tanto la vita e
i miracoli di
Gesù, quanto
piuttosto
delineare la
struttura
teologica (Prima
che Abramo
fosse, io sono
8,58) (Io sono
la via e la
verità e la vita
14,6) e
metafisica (Inno
al Logos) di cui
Gesù rappresenta
l'epifania e la
divulgazione.
2. Attorno al
concetto del
Logos
Il termine
"logos" può
essere tradotto
in tanti modi,
perché
storicamente ha
assunto
connotazioni
diverse. Non è
quindi
importante
stabilire il
senso originale,
quanto piuttosto
i significati
che esso ha di
volta in volta
assunto nella
riflessione
filosofica greca
e, più in
generale,
occidentale.
Presso i Greci,
"Logos" può
indicare sia il
"discorso" (lat.
ratio, o-ratio),
sia il
"calcolo". Già
per Eraclito,
però, è
necessario
distinguere tra
logos o ragione
individuale e
logos
universale:
tutti gli
uomini,
partecipano a
una "legge
universale", a
un "ordine
universale"
(altro
significato di
"logos"), se
solo distolgono
lo sguardo dalle
cose terrene e
caduche. Questo
Logos
universale, è
identificato
anche con il
"fuoco" divino,
che vive dentro
tutti gli
uomini. Con
Platone il
"Logos" diventa
la capacità di
fare dei
discorsi veri,
in grado di
resistere al
fuoco
confutatorio
della
dialettica. Nel
"Sofista" le
idee
partecipando
tanto
dell'identico,
quanto del
diverso,
comunicano tra
di loro e
rendono
possibile quella
"complicazione",
"comunicazione"
che sola
assicura il
discorso
(logos), ossia
il pensiero. Con
Platone si ha
quindi il
passaggio tra
"discorso" e
"ragione": il
logos diventa la
capacità di fare
discorsi veri.
Platone poi
distinguerà la
conoscenza come
formata da
diversi gradi di
perfezionamento
("Immaginazione"/eikasìa;
"credenza"/pìstis;
"ragione"/diànoia;
"intellezione"/nòesis).
Lo spostamento
del significato
semantico del
termine "logos"
dal senso
originario
eracliteo
("fuoco divino"
"Ragione
universale") a
quello platonico
("discorso
vero") è
perfezionato da
Aristotele che
fonda la
"logica" poiché
scienza del
pensiero e del
linguaggio. Per
Aristotele, sul
piano
spirituale, è
invece
fondamentale
l'intelletto
"attivo", il
nous, facoltà
comune all'uomo
e a Dio, che
permette di
pensare quel
pensiero che Dio
ha di se stesso
(Etica
Nicomachea). Per
Plotino si deve
distinguere tra
la mera ragione
"calcolante" (loghismòs)
e la capacità di
cogliere l'altro
pensiero (logos)
che determina
l'impulso
ascetico come
cammino di
progressivo
distacco verso
l'Uno, ma la
facoltà capace
d'identificarsi
con l'Uno è
l'"intelletto",
lo "spirito", il
noùs. Fu
comunque Filone
d'Alessandria,
ebreo
ellenizzato, a
elaborare le
originarie
concezioni
giudaiche,
identificando il
pneuma (spirito)
con il noùs
(intelletto
attivo
aristotelico e
del
neoplatonismo).
il ruah biblico
fu quindi
identificato con
il nòus greco ed
ecco il perché
della
celeberrima
espressione
"All'inizio era
il Verbo".
Infatti la
Sapienza di Dio
è identificata
da Filone con il
mondo delle idee
platoniche o
degli archetipi
contenuti nella
mente di Dio.
Questi pensieri
divini ed eterni
sono contenuti
dall'eternità
(dall'inizio)
nella mente di
Dio, che egli
chiama logos,
Ragione divina
che governa il
mondo (concetto
per la verità
anche stoico).
All'"inizio era
il Verbo" si
riferisce
proprio alla
mente di Dio che
contiene prima
della creazione
stessa, gli
archetipi
eterni.
Erroneo però
sarebbe
tradurre,
ricondurre, o
semplicemente
associare il
Logos a
mediazione, o
numero. Poiché
esso non media
fra Creatore,
Creato, e
Creatura, è egli
stesso una
creazione, e
veicolo a sua
volta di
creazione.
Mediare implica
una reciproca
volontà di
sintetizzare due
posizioni
antitetiche, o
comunque
distanti. Può
forse il
Creatore,
l'Origine
Immanifesta,
abbandonare la
propria
perfezione a
favore di una
condizione
comunque
deficitaria
rispetto alla
precedente ?
Sicuramente ciò
non è possibile.
E' la creatura
che trascendendo
la creazione, e
quindi se
stessa, tende
alla perfezione,
e non certo il
Creatore
all'imperfezione.
Ancora il Logos
non è numero, o
più precisamente
non è solamente
numero, giacché
è anche
strutturazione e
regola: insieme.
Cosa altro è il
verbo se non un
soffio di vita,
articolato in
espressione si
compiuta ma
anche dinamica.
Il logos è
l'aria che nasce
dal fuoco del
puro intelletto
divino, che
raffreddandosi
si muta in
delicata
rugiada, a sua
volta destinata
a dare vita
all'elemento
terra.
Il verbo è vita,
senza ancora
forma ma
portatore in se
di ogni idea e
matrice di vita.
Nel simbolismo
cabbalistico la
Lux Increata
promana dai tre
veli negativi, e
s’infonde dando
forma nel Grande
Anziano
(Kether), ed
esso da vita
alla creazione,
ancora animata
dal soffio
divino, e dalla
presenza divina.
Assumendo quindi
sembianze di
un'onda sismica
che si coagula
nuclei, e
successivamente
da essi,
assumendone le
peculiarità,
s’irradia verso
altre direzioni.
Il verbo assume
significato di
presenza divina,
tanto che è
detto che essa
non si ritiri
dalla Creazione,
altrimenti
questa
seccherebbe come
un canale in cui
non scorre più
acqua.
Per gli egizi il
Ptah era il
verbo, la parola
dell'inconoscibile
Nut. Il dio che
forgia, e da
vita ad Autum,
il Re Sole. Il
rapporto fra
questa divinità
e la misterica
egizia può
essere dedotto
attraverso la
lettura di un
passo rinvenuto
in una stele di
Shabaka, sovrano
della XXV
dinastia:
"Perché ogni
parola divina ha
origine a
seconda di ciò
che il cuore di
Ptah ha pensato
e che la sua
lingua ha
ordinato. Allo
stesso modo
furono create le
fonti di energia
vitale. Ancora
possiamo
leggere:
"Ptah-Tatenem
mise al mondo
per prima cosa
gli dei". Ptah
striscia fuori
dal grande lago
oscuro, dalla
fonte
inconoscibile
della vita, e
solamente quando
da essa è
distinto, posto
oltre i suoi
limiti, ascende
al ruolo di
divinità
creatrice, di
Artigiano che
crea e modella
la materia,
assumendo però
le sembianze di
Atum. Nel tempio
di Menfi, città
votata a Ptah,
il gran
sacerdote del
dio porta il
titolo
significativo di
Decano dei
Mastri
Artigiani,
perché in quel
recinto sacro
erano tramandati
gli insegnamenti
delle arti
operative e
speculative:
architettura,
scultura,
medicina, arti
magiche,
falegnameria, e
oreficeria. Ptah
deposita ogni
segreto della
creazione, che
poi trasfonde
sia a livello
celestiale, che
terreno ad altri
artigiani, che
modellano e
riproducono in
funzione delle
proprie
capacità.
Per gli gnostici
alessandrini il
Logos è il
pensiero, il
verbo divino, la
Sophia, la prima
ipostasi, che
separata dalla
coscienza che
l'ha partorita,
produce effetti.
Essa determina
un duplice
disconoscimento
fra Ente
pensate,
pensiero, e
azione
sottostante.
L'organizzazione
della materia,
la creazione nel
suo complesso, è
frutto di un
pensiero che non
riproduce la
totalità,
l'unità, della
fonte prima.
Determinando una
difformità fra
creazione,
pensiero, ed
ente pensate (il
quale è altro
rispetto alla
sorgente), sia
un abbandono
insostenibile,
che provoca
nell'uomo
cosciente un
ardente
desiderio di
ritorno, di
abbandono della
manifestazione
poiché
imperfetta.
3. L'inno al
Logos
In Principio era
il Verbo.
Il Verbo è
l'inizio del
tempo, il Verbo
è il crinale che
separa
l'assoluto
dall'irreversibilità
della creazione
stessa, poiché è
un principio
distintivo e
separativo, che
ammette un prima
e un dopo.
All’inizio era
il Verbo, senza
il Verbo non vi
è stato un
inizio ma cos’è
il verbo ? Il
verbo non è
solamente un
suono
articolato, e
non è neppure
una semplice
parola, ma è
bensì la
contestualizzazione
e trasmissione
di un’azione. Il
Verbo assume
quindi un
aspetto
dinamico, un
imprimere forza,
una
manifestazione
di volontà.
In Principio era
il Verbo può
essere
interpretato in
termini assoluti
ed in termini
relativi, nel
primo caso si
esclude che vi
fosse altro
prima del Verbo,
ma come vedremo
questo è
incongruente con
il seguito
dell’Inno, nel
secondo caso
dobbiamo vedere
questo Principio
come la
manifestazione
di una Nuova
volontà
ordinatrice e
creatrice, che
si va a
sovrapporre o
rettificare
altro.
Il passo
Il verbo era
presso Dio, e il
Verbo era Dio,
può essere
tradotto anche
con il Verbo era
presso il Dio
(Padre), il
Verbo era dio.
Questo perchè in
greco viene
fatta
distinzione fra
Theos
accompagnato
dall'articolo
determinativo (e
che si riferisce
al Padre) e
Theos senza tale
articolo che
significa
potenza, o dio,
ma non dio
Padre. Quindi se
invece che una
traduzione
contestuale, si
predilige una
traduzione
letterale,
dobbiamo vedere
il Logos come
una divinità a
se stante e non
identitaria con
Dio Padre. Ciò
sarebbe in
accordo con la
teologia
gnostica delle
ipostasi, cioè
delle creazioni
sottostanti, ma
anche con il
dogma della
Trinità. In
entrambi i casi
ci troviamo di
fronte ad un
elemento
distintivo del
Vangelo di
Giovanni, che
introduce la
questione
teologica in
quella che per
gli altri
Vangeli è la
semplice
narrazione della
vita e della
morte di Gesù.
Che questo passo
sia cruciale è
evidenziato
anche da
traduzioni
ebraiche, che
nell’ottica
dell’attesa
messianica
indicano come il
testo greco si
riferisce al
logos, e alla
sua funzione,
attraverso
pronomi
impersonali.
In tale
ottica il Logos
viene degradato
da persona a
semplice
strumento o
manifestazione o
attributo
divino. Quindi
da agente di
creazione, esso
diviene
strumento e leva
di creazione.
Ciò risponde ad
una triplice
esigenza. La
prima quella di
ricondurre il
Vangelo di
Giovanni, e il
cristianesimo,
all’interno
dell’alveo della
tradizione
religiosa
ebraica, la
seconda è quello
del perdurare
dell’attesa
messianica
attraverso la
rimozione del
Logos incarnato
in Cristo.
Infine la terza
negando la
persona del
Logos, si negano
i presupposti
tradizionali nel
canone cristiano
alla Trinità, e
questo in
accordo con la
visione unitaria
e monolitica di
Dio da parte
degli Ebrei.
Anche il passo
tutto è stato
fatto per mezzo
di lui
apre le porte ad
un
interrogativo:
se tutto è fatto
attraverso il
Logos, come fa
il Logos ad
esistere al di
fuori della
sfera del Dio
Padre ? Il Logos
è un principio
creatore
increato ? Già
in questo
Prologo siamo in
presenza del
binomio
teologico
Generato e
Creato ?! Oppure
questo
suggerisce una
duplice
creazione,
aprendo così le
porte allo
gnosticismo
dualista, o in
alternativa alla
teogonia
ipostatica di
Valentino ?!
Sicuramente il
Logos di
Giovanni appare
molto simile al
Demiurgo
Platonico, che
posto al centro
dell'Universo e
del Tempo plasma
la materia
infondendo in
essa sostanza
tratta dal mondo
delle idee. La
forte attinenza
del Prologo con
la filosofia
greca si ha
anche nel
concetto stesso
di Logos
creatore, che è
sovrapponibile a
quello stoico
dove troviamo il
logos
spermatikòs: un
principio igneo
che diffonde la
vita nella
materia. Il
Logos assume
quindi le
caratteristiche
di un agente
trasmutativo,
così come in
alchimia è il
fuoco, unico fra
gli elementi,
che può
determinare per
sua presenza o
assenza il
cambiamento di
stato degli
componenti
dell'universo.
In tutta
risposta i
traduttori di
cultura e
religione
ebraica
si richiamano ad
una traduzione
del 1526 ad
opera di Tyndale
“Tutte
le cose sono
state fatte da
esso, e senza di
essa, neppure
una delle cose
fatte è stata
fatta. In essa
era la vita e la
vita era la luce
degli uomini.”
Dove ovviamente
non si vede il
Logos come una
persona divina,
ma bensì come la
parola divina e
quindi un
semplice
attributo del
Dio Padre.
E' ancora
interessante
notare come in
alcune comunità
gnostiche questo
passo veniva
tradotto come:"
Tutto è stato
fatto per mezzo
di lui, e senza
di lui, il
Niente è stato
fatto di tutto
ciò che esiste."
In questo caso
siamo innanzi ad
un'impostazione
gnostica
dualistica
prossima quindi
al manicheismo o
al catarismo
(espressione
gnostica tarda)
che suggerisce
non solo una
doppia
creazione, ma
anche una
differenza
qualitativa fra
le due creazioni
in quanto non
provenienti
dalla stessa
radice: Una che
proviene dal
Logos divino, ed
una che proviene
dal Nulla.
Impostazione
dualistica che
sembra
avvalorata dai
passi seguenti
dove si parla
delle Tenebre
che non
accolgono la
Luce. Ovviamente
la riflessione
che scaturisce è
se il Logos è
Luce e tutto è
stato creato
tramite il
Logos, chi ha
creato gli
uomini e le
tenebre ?! Dove
per i primi
l'accogliere il
Logos è
discrimine fra
vita e morte
spirituale, e
per le seconde
che non lo
accolgono di
preesistenza in
quanto la luce
non può genere
le tenebre, così
come le tenebre
non possono
generare la
luce.
Inoltre non
possiamo notare
l’interessante
rapporto che
l’estensore
dell’Inno ha con
il tempo e la
sua linearità.
Il tempo così
importante per
noi moderni,
tanto da essere
alla base del
nostro
processionare
lungo la vita,
con le sue
cadenze
socialmente
imposte, per
l’autore di
questo brano
pare essere una
porosa membrana
deflorata da
logos, e dagli
altri attori.
Tutto ha inizio
con il Logos,
questi è
l’agente che
crea, però
successivamente
troviamo che
sullo sfondo del
tessuto
narrativo si
agitano già
uomini e
tenebra: i primi
in attesa di
luce e vita, e
la seconda
animata da
spirito di
sopraffazione.
E’ un tempo
diverso ?!
Oppure un Logos
diverso ?!
Oppure ci
troviamo innanzi
ad elementi
tipici della
speculazione di
Basilide che ci
narra di un
Cristo Igneo che
di
manifestazione
in
manifestazione
ne assume la
forma ad essa
maggiormente
indicata ?! Dove
il tempo assume
la duplice veste
di elemento
relativo
all’insieme in
cui il Logos
agisce, e
movimento
esterno
all’insieme del
Logos stesso.
Per gli antichi
greci il tempo
era circolare,
tutto si
ripeteva
all’infinito.
Nella tradizione
ebraica il tempo
ha un inizio, ma
non ha una fine,
in quanto
l’assoggettamento
dell’uomo alla
volontà di Dio è
un atto dovuto a
prescindere il
senso di questa
legge e la
finalità della
medesima: un
semplice
meccanismo.
Nella forma
religiosa del
cristianesimo
esiste un tempo
degli uomini che
ha fine con la
seconda venuta
del Cristo, che
è al contempo
principio del
tempo di Dio.
Infine nello
gnosticismo il
tempo che
cadenza la vita
degli uomini ha
fine
relativamente al
singolo gnostico
che raggiunge la
Gnosis, la quale
lo pone oltre il
flusso spazio
temporale
assumendo forma
e contenuto di
redenzione.
Nell’Inno al
Logos abbiamo
che quest’ultimo
irrompe nella
vita degli
uomini,
alterando in
coloro che lo
accolgono la
percezione del
circostante.
4. Protennoia
trimorfica
Riportiamo di
seguito un testo
barbelo gnostico
che mostra una
sorprendente
similitudine con
il Prologo del
Vangelo di
Giovanni. I
Barbelo gnostici
ritenevano che
la caduta
pneumatica, così
come la risalita
verso la casa
del Padre (il
Pleroma) fossero
determinati da
un'espressione
divina femminle
(Barbelo,
Sophia, Zoe,
ecc..)
introducendo
così il
conflitto fra
conoscenza ed
emozioni, fra
ragione ed
errore. La
Protennoia
Trimorfica è
stata
ritrovata tra i
codici di Nag
Hammadi
(codice XIII,
trattato I), ed
è collocabile
nei primi anni
del secondo
secolo dell'era
cristiana.
Io sono la
Protennoia, il
Pensiero che
dimora nella
Luce,
io sono il
movimento che
dimora nel
Tutto,
colei in cui il
Tutto pone le
proprie
fondamenta,
la primogenita
tra coloro che
vennero
all’esistenza,
colei che esiste
prima del Tutto,
colei che è
chiamata con tre
nomi,
che esiste di
per sé, essendo
perfetta.
Io sono
invisibile
all’interno del
Pensiero
dell’Invisibile
Uno
e sono rivelata
in ciò che è
incommensurabile
e ineffabile.
Sono
incomprensibile,
stando
all’interno
dell’incomprensibile.
Mi muovo in ogni
creatura.
Sono la vita
della mia
Epinoia,
ciò che dimora
in ogni Potenza
e in ogni eterno
movimento,
all’interno di
Luci invisibili,
all’interno
degli Arconti e
degli Angeli,
dei Demoni e di
ogni anima che
dimora nel
Tartaro,
di ogni anima
materiale.
Io dimoro in
coloro che
vennero
all’esistenza.
Io mi muovo in
ognuno e scendo
nel profondo di
tutti.
Io vado
rettamente e
risveglio colui
che dorme,
sono la visione
di coloro che
sognano nel
sonno.
Io sono l’Uno
invisibile
all’interno del
Tutto.
Io sono colei
che consiglia
coloro che sono
nascosti
E conosco il
Tutto che esiste
nel
nascondimento.
Io sono senza
numero al di là
di ognuno.
Io sono
incommensurabile
e
impronunciabile,
eppure se lo
desidero mi
manifesterò,
interamente,
perché sono lo
Splendore del
Tutto.
Io esisto prima
del Tutto e sono
il Tutto
perché esisto in
ognuno.
Io sono una voce
che parla
sommessamente.
Io esisto dal
principio nel
Silenzio.
Io sono ciò che
è in ogni voce
e la voce che è
nascosta in me,
nell’incomprensibile
illimitato
pensiero
all’interno
dell’illimitato
Silenzio.
Io discesi nel
centro degli
inferi
e risplendetti
sopra
l’Oscurità.
Io sono colei
che versò
l’acqua.
Io sono colei
che è nascosta
nelle acque
radianti.
Io sono colei
che illuminò
gradualmente il
Tutto col mio
Pensiero.
Io sono unita
alla Voce
Ed è attraverso
me che la Gnosi
si manifesta.
Io dimoro negli
ineffabili e
negli
incomprensibili.
Io sono la
percezione e la
Conoscenza,
emettendo una
Voce per mezzo
di Pensiero.
Sono la Voce
reale e parlo in
ognuno
ed essi la
riconoscono dato
che in loro
dimora un Seme.
Io sono il
Pensiero del
Genitore
e fu
innanzitutto
attraverso me
che la Voce
venne,
cioè la
Conoscenza di
cose che non
hanno fine.
Io esisto come
Pensiero per il
Tutto,
in armonia col
Pensiero,
inconoscibile,
irraggiungibile.
Io manifestai me
stessa – Io –
tra tutti coloro
che mi
riconoscono,
perché io sono
colei che è
unita ad ognuno
nel Pensiero
nascosto e nella
Voce esaltata.
Tale Voce viene
dal Pensiero
nascosto,
incommensurabile
dimora
nell’Incommensurabile.
È un mistero,
irrefrenabile
per la sua
incomprensibilità,
invisibile a
tutti coloro che
sono manifesti
nel Tutto.
È luce che
dimora in Luce.
Noi soli siamo
separati dal
mondo manifesto
dato che siamo
salvati dalla
nascosta
saggezza dei
nostri cuori
per mezzo
dell’ineffabile
e
incommensurabile
Pensiero.
Colui che è
nascosto dentro
di noi paga i
tributi del suo
frutto
alle acque di
Vita.
Allora il Figlio
che originò
attraverso
questa Voce,
che procede
dall’alto,
egli che
possiede dentro
di sé il nome
che è una Luce,
rivelò le cose
imperiture
e tutte le cose
sconosciute
furono rese note
e queste cose,
difficili da
interpretare
e segrete, egli
rivelò,
e per coloro che
dimorano nel
Silenzio con il
primo Pensiero,
egli predicò
loro.
A coloro che
dimorano
nell’Oscurità
egli si rivelò,
a coloro che
dimorano
nell’Abisso,
egli si mostrò,
a coloro che
dimorano nei
tesori nascosti,
egli disse i
misteri
ineffabili e li
illuminò,
tutti figli
della Luce, su
dottrine
irripetibili.
La Voce che
origina dal mio
Pensiero, esiste
come tre stati,
il Padre, la
Madre, il
Figlio, come un
suono
percettibile.
Essa possiede la
Parola dentro di
sé – Parola
dotata di ogni
gloria.
Possiede tre
mascolinità, tre
potenze, tre
nomi,
esistendo come
Tre –
tetrangolati –
nascosti nel
silenzio
dell’Ineffabile.
Nessuno può con
sicurezza
affermare che
l’Inno al Logos
ha influenzato
la stesura di
questo scritto,
e neppure che
questo scritto
ha influenzato
la stesura
dell’Inno al
Logos. Possiamo
però affermare
che fra i due
scritti ci sono
delle profonde
assonanze, che
suggeriscono
come al tempo
della loro
stesura
esistessero
numerose casse
di risonanza per
queste visioni
filosofiche, che
in seguito
sarebbero state
violentemente
combattute dalla
stessa Chiesa.
5. Conclusioni
Malgrado la
brevità dei
passi che
compongono
l'Inno al Logos
abbiamo potuto
apprezzare la
molteplicità di
feconde
riflessioni che
da essi
scaturiscano, di
cui in questo
breve lavoro ho
potuto
evidenziarne
solamente una
misera parte.
L'autore
dell’Inno sembra
non essere
estraneo a
concetti cari
alla filosofia
greca, e allo
gnosticismo
alessandrino.
Questo Logos
fecondo che dona
la vita,
richiama la
filosofia stoica
ma anche il
concetto di
Demiurgo
Platonico. Le
Tenebre che
cercano di
sopraffare la
Luce, e il non
mischiarsi della
seconda con le
prime richiamo
lo zoroastrismo,
l'antica
religione dei
Magi, dove Luce
e Tenebre erano
in lotta fra
loro, e il fuoco
rappresenta la
vita e la
conoscenza.
Così come la
generazione del
Logos richiama
prepotentemente
gli scritti dei
maestro gnostici
Valentino e
Basilide, che
vedevano nella
conoscenza la
via e la forma
di redenzione e
rettificazione
dell’uomo.
A prescindere
dalle varie
riflessioni, che
ognuno di noi
può trarre
dall'Inno al
Logos, dobbiamo
chiederci se
questa sua
capacità di
svelare infiniti
scrigni di
sapienza dipenda
da una chiara
volontà del suo
estensore,
oppure sia
frutto del caso,
ed inoltre che
scopo è stato
inserito il
Vangelo di
Giovanni in seno
alla raccolta
del Nuovo
Testamento,
tenuto conto
della sua
difformità
rispetto ai
sinottici?
Il sottoscritto
non crede molto
al caso,
specialmente
quando abbiamo
innanzi a noi un
testo che è il
frutto di una
serie di stesure
successive, e
che oramai fa
parte del canone
sacro cristiano
da quasi duemila
anni. Gli
studiosi
sostengono che
la compilazione
del Vangelo di
Giovanni si
durata oltre
cinquanta anni,
possiamo però
ipotizzare che
nel corso di
questo periodo
vi siano stati
degli apporti e
delle
inclusioni, e
che il Vangelo
di Giovanni sia
solamente ciò
che sta attorno
al Prologo, così
come il Prologo
è un’appendice
all’Inno al
Logos. Opera che
ha come fine
quello di
raccogliere
elementi
filosofici e
metafisici,
all'interno di
una narrazione
che in qualche
modo incontrasse
la capacità di
lettura e di
ascolto dei
semplici, e non
turbasse troppo
il sonno dei
censori. Una
volta che questo
Vangelo ebbe
conquistato il
cuore delle
comunità dei
fedeli, la sua
inclusione nel
canone fu
necessaria, e
non più
ostacolabile, e
da quel momento
la sua
preservazione
garantita.
Un’astuta
operazione,
attraverso la
quale la
narrazione delle
opere e della
storia di Gesù
non sono altro
che il cavallo
di troia, lo
strumento,
attraverso cui
traghettare nel
cuore della
nascente e
vincente
religione
elementi
filosofici si
destinati ai
pochi uomini di
conoscenza, ma
che
necessariamente
dovevano essere
salvaguardati
dal crollo
imminente del
mondo
greco-romano, e
traghettati
nella nuova era.
Attraverso una
nuova forma
narrativa,
oppure inseriti
all’interno di
una nuova forma
narrativa che ne
garantiva la
capillare
diffusione
attraverso la
ripetizione
orale e rituale.
Possiamo ancora
vedere questa
operazione
nell’ottica
delle anime del
cristianesimo
primitivo,
quella ebraica e
quella greca
alessandrina,
raccolte e
cristallizzate
nel canone. Dove
la prima, meno
colta, dispone
di un numero
maggiore di
testi, e la
seconda, legata
alla conoscenza
e al misticismo,
di un numero
minore ma
qualitativamente
superiore. In
questa
prospettiva
possiamo vedere
il Canone nuovo
testamentario
come la
composizione, o
ricomposizione,
di quel mosaico
che erano le
comunità
cristiane dei
primi secoli
della nuova era:
la testimonianza
eterna
all'interno
della tradizione
scritta non solo
dei vari
rapporti di
forza, ma anche
delle varie
radici
spirituali.
Già questo
schema era
presente
nell'insegnamento
di Gesù, dove al
numero degli
apostoli si
contrapponeva il
ruolo di
prediletto di
Giovanni, e dove
coesistevano
diverse
provenienze e
sensibilità
spirituali ed
umane. A San
Pietro il
compito di
guidare il
gregge, a
Matteo, Luca e
Marco quello di
incarnare
l'insegnamento
morale quindi
legato ad una
visione
orizzontale e
normativa,
mentre a
Giovanni quello
di offrire il
fiore della
mistica e della
filosofia a
coloro che erano
in grado di
coglierlo. Del
resto la
duplicità
dell'insegnamento
religioso è
insita nella
religione
cattolica, dove
il culto e la
fede sono
riservati al
popolo, e
l'amministrazione
del culto e la
teologia
riservati alla
classe
sacerdotale.
Rimane adesso
un'ultima
riflessione da
proporre al
paziente
lettore. L'Inno
al Logos disegna
una creazione
basata
sull'intelletto,
che si manifesta
nel Logos
vivente, capace
di portare vita
e luce laddove
prima
albergavano le
tenebre.
Possiamo quindi
affermare che
siamo innanzi ad
una seconda
genesi, non più
basata sul
diletto di un
fare meccanico
in guisa del
piacere della
divinità così
come appare
nel'apertura
dell'Antico
Testamento;
quanto piuttosto
una creazione
frutto di amore
e ragionamento.
Nella precedente
genesi la
divinità vede a
posteriori ciò
che è buono e
giusto rispetto
al proprio
giudizio,
nell’Inno al
Logos tutto è
vita e luce.
Sorge adesso un
ultimo dubbio,
considerazione,
o semplice
ronzare
dell'intelletto.
Le tenebre che
cercano di
sopraffare la
luce del logos
portatore di
vita, non
saranno state il
frutto della
precedente
creazione legata
ad un cieco ed
umorale fare ?
Rientrando così
nel solco non
solo della
Tradizione
barbelo gnostica
a cui appartiene
anche il testo
gnostico in
precedenza
proposto, ma
alimentando la
speculazione di
Marcione attorno
al Dio Buono del
Nuovo
Testamento, e al
Dio degli Ebrei.
Altrimenti che
senso avrebbe
l’Inno al Logos,
e le
contraddizioni
che sono tali
solamente se
cerchiamo di
vedere in esso
una forma
ellenizzata
della genesi
dell’Antico
Testamento ?
Forse non
possiamo
affermare che il
Vangelo di
Giovanni sia un
testo gnostico,
ma sicuramente
possiamo
affermare che
numerosi sono
gli indizi che
portano a
ritenere tale
l’Inno al Logos.
Andando così a
tratteggiare un
mondo spirituale
e filosofico
molto
frastagliato e
confuso, e
ponendo la
nascita del
cristianesimo in
un limbo non
necessariamente
riconducibile
alla nascita e
predicazione di
Gesù
In conclusione
ciò che
sicuramente
possiamo
affermare è come
attraverso
l'Inno alla Luce
l'estensore del
testo, pare
voglia separare
in modo vigoroso
la radice
ebraica-messianica
dalla radice
greca
alessandrina
della deità
generata.
Liquidando così
l'intera
questione del
retaggio ebraico
come non
necessaria non
solo alla
teologia
cristiana, ma
alla radice
stessa della
spiritualità
cristiana.
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